Una
stupida, una sciocca, una donna inelegante, squadrata come un ciocco di legna
da ardere fatto a pezzi con l’accetta. Così mi appare Lorna, quel nome mutuato
da una fiction anni ’80, il trucco
pesante nonostante l’abbronzatura, il seno procace in bella mostra, come le
gambe che scivolano via sinuose da sotto il vestitino corto, da ragazzina.
È bella come una donna di Boldini, ma è
e resta quello che è sempre stata: una scema. Ha superato i quaranta senza
saper accettare il declino, in preda a una persecuzione paranoide, sempre
convinta che tutto e tutti cospirino contro di lei.
Eppure,
stavolta, quando ha squillato il telefono e ho sentito la sua voce familiare
dire: ciao Narciso, è Bocca d’oro,
ho sorriso con il trasporto che si deve a una vecchia amica. Per un attimo sono tornata al nostro banco,
coi diari e quelle frasette sciocche, ma, invece, eccola che riprende a
lamentarsi.
<<Ha
detto che torna da sua moglie che preferisce lei, il calore della sua noia, il
peso della sua tranquillità. Lì zitta e buona, appagata dal vivere un passo
indietro al grande manager. Io non vado bene, troppo irrequieta, troppo
impegnativa, non conta la gioia che siamo stati capaci di darci...>>.
Uno
sfogo da soap opera, parole dozzinali
che non comunicano nulla, non obietto che se continua a cercarsi uomini sposati
e in carriera non troverà mai altro; lascio correre, non mi interessa
aggiungere parole altrettanto scontate alle sue, che inondano la stanza.
<<Quella
donna ha avuto tutto servito su un piatto d’argento, non ha nessun merito,
nessun pregio. Un matrimonio classico: convenienza e apparenza, vive come se
tutto le fosse dovuto, mi ignora e alla fine lui ha scelto lei>>.
Potrei risponderle che quella donna un
merito ce l’ha: sa tenersi un uomo. Poi inizia a piangere, provo un accenno di
pena, ma sono troppi gli errori, gli atteggiamenti indisponenti e le
manchevolezze che si tira dietro, perché possa provare una sincera pietà per
lei.
Si
frega le mani, suda, ha un’aria che potrebbe spaventare anche il marito più
infedele. Mi godo il tormento in diretta, nel mio soggiorno, mentre osservo le
venature del parquet attraverso il
tavolo in cristallo su cui le sue dita smaltate strisciano alla ricerca di un’altra
sigaretta.
<<Dovresti vederla, una maschera ipocrita,
bigotta, classista, cattiva>>.
<<La
conosci!?>>.
<<Si,
oh la conosco anche bene direi.. eheh sempre che qualcuno possa dire di
conoscerla veramente>>
<<E
da quanto andava avanti!?>>.
<<Quasi
un anno e mezzo>>.
<<É
tanto!..e come l’hai conosciuta?>>
<<Ad
un corso di pittura>>.
Il corso di pittura, come il teatro, la
letteratura, tutte scuse per appagare il suo ego in cerca di facili conferme. É
sempre stata cosí: le altre hanno i soldi, i mariti, ma vivono vite noiose e
inguaribilmente borghesi. Lei invece si ritiene un’artista, che vive, che
soffre e straparla.
<<Io la odio, è falsa, è una
stronza, nasconde i suoi finti sorrisi dietro a un viso di porcellana, da
eterna bamboletta che non ama altro che sè stessa. Una gatta che non si
affeziona a nessuno, non soffre per nessuno, segue la sua convenienza, ti
ascolta con calma e intanto ti giudica..eppure...vince, riesce a rendersi
indispensabile, mentre io vengo scaricata come un bidone..>>.
Ha
il fiato corto mentre descrive l’ennesimo fallimento facendo fischiare il
filtro della sigaretta che aspira fino all’ultimo.
La
detesto.
Riappare
nella mia vita senza che io la cerchi, come un vecchio vestito saltato fuori da
un cassetto apposta per ricordarti che non puoi più indossarlo, che non ti
entra più.
Arriva.
Si siede e parla e mi fissa, con gli occhi gonfi di psicofarmaci, vuota il
sacco e va via rabbiosa, invidiosa.
Lorna
e Gioia, Gioia e Lorna, le più belle del liceo. Ma mentre io ero la figlia di
Rendini, il costruttore, per lei, che veniva dal Mamiani, una scuola pubblica,
le attenzioni dei rampolli dell’aristocrazia romana erano una gratificazione
irresistibile. All’inferiorità sociale suppliva con il suo essere disinibita,
rivoluzionaria e affascinante. Inafferrabile, capace di saltare da una storia
all’altra, da una decappottabile all’altra, senza mai mancare, tra l’altro, di
disprezzare quel regalo da figlio di papà.
Sessualmente
bulimica, le ho sempre invidiato la facilità nell’approcciarsi ai maschi. Prima
di conoscere Lorna, l’unica cosa che sapevo del sesso era un discorso di mia
madre su una porta e una chiave da dare solo a chi si ama. Con lei, di colpo,
ogni sera partecipavo a un’uscita in quattro. Al fortunato di turno poneva una
condizione imprescindibile per l’appuntamento: portare un amico. E così al pari
di Lorna venivo considerata una mangia uomini, con la differenza che mentre lei
si appartava, io non riuscivo a sbloccarmi. A vederla ora, però, credo che i
problemi li avesse lei.
<<Una
frigida, è anche una frigida e moralista, suo marito ne ha piene le palle del sesso con lei,
dell’appiattimento totale su una morta! Eppure ci torna, incatenato alla sua
inadeguatezza, senza di lui è persa, non sa fare nulla>>.
<<Forse
ha intuito che...>>
<<Non
se lo può nemmeno immaginare! lei non si adatta al mondo, piuttosto si aspetta il
contrario. Segue la sua logica: tutto deve essere ordinato, schifosamente
vicino al perfetto a cui ambisce>>.
<<Forse
sospetta?>>.
<<No,
non sospetta nulla ahah, te lo posso giurare, non sospetta...no..eheh>>
Sulla domanda mi è tremata la voce, l’ho
fatta ridere. Mi sento a disagio, uno dei motivi che più alimentano la mia
insofferenza sta nel senso di colpa che accende il vederla.
Non
avevo mai tradito mio marito e non lo farò più.
L’ho
voluto fare col suo uomo, sul suo terreno, sfidando il suo potere.
Accadde
in occasione della morte del bambino.
Carlo
era solo a casa, Lorna era uscita pazza di dolore. Lui mi raccontò delle
complicanze insorte con la malformazione di Sandrino e della sua piccola, unica
mano che stringeva sempre il suo giocattolo preferito: un aeroplanino a cui
mancava un’aletta. Provai una tenerezza immensa e in un attimo eravamo stretti
sul loro letto. Fu un errore e una cosa sporca nei confronti di Mario, del
nostro matrimonio, di cui sono felice. Pienamente felice. Uno scheletro
nell’armadio che mi perseguita, che sommerge di ridicola falsità ogni mia frase
d’amore.
<<una
donna ignara, piccola e inutile, si frappone tra me e la felicità e gode
enormemente di ciò. É una puttana, Giò! delle volte mi dico che e’ solo una
puttana, ma non basta, la voglio vedere morta sai?>>.
<<non
dire così Lorna! Non esagerare, se la uccidessi non avresti più nessuna
scusa da dirti e dovresti
ammettere che non é colpa sua se il suo uomo la tradisce come passatempo, é lui
che ti prende in giro. Tu non sei la prima e non sarai nemmeno l’ultima>>.
<<Eh
scusa.. ma tu, tu cosa cazzo ne sai? Scusa eh!? ma tu cosa parli? di cosa? Credi che non lo conosco quel modo di
guardare, di ridere sotto i baffi, di farti sentire di un’altra specie?
Irrimediabilmente inferiore, mai una volta degna dell’attenzione più vera, più profonda?>>.
Lorna
accarezza il soprammobile d’alabastro bianco che poggia sul tavolo, ha una
forma surreale, dovrebbe essere un delfino, lo accarezza sensuale, come fosse
il pene di un uomo che si va irrigidendo. Il suo volto si incupisce, le rughe
affiorano dal trucco e la sua bellezza si fa luciferina.
Addrizza
il busto, poi il collo e per ultima la testa e mi fissa, spalancando gli occhi,
vitrei come una bambola.
Un
brivido mi trasmette la paura prima del pensiero, prima che si alzi in piedi con della voce mutata
di una donna malata, <<Me lo dici chi cazzo sei Giò? dopo tanti anni me
lo dici Gioia? O devo continuare a riderne con Mario di quello che sei? Ma
l’hai capito? L’hai capito o no che succede adesso?>>.
Poi
non sento più nulla. Vedo alzarsi e abbassarsi il braccio, mentre i capelli
vanno prima indietro come una tenda scossa dal vento, poi in alto. Vedo le urla
e gocce di sangue sul bianco dell’alabastro, sul tavolo di vetro. Vedo la mia
mano che preme sull’occhio, ma non sento più dolore come non sento il mio amore,
uscito dal cuore.
Nessun commento:
Posta un commento