L’ultima volta che l’ho visto era in piedi a gambe larghe
con una pistola in mano.
Tuta Everlast grigionera e preistoriche Adidas Jabbar alte,
coppola di velluto D&G e rayban Aviator a specchio. Il suo travestimento
preferito: guerriero da strada griffato made in Mediolanum.
Aveva appena combinato un guaio di quelli grossi, Lele
Governa da via Paolo Maspero. Due metri di muscoli e nervi su una testa calda
come poche altre malgrado i quarant’anni suonati. Il solito pirlone specializzato
in cause perse, ho pensato allontanandomi più in fretta possibile.
Di fronte a quello che per noi restava sempre lo
stabilimento in disuso della Motta di viale Corsica, anche se ormai da alcuni
anni il vecchio complesso industriale 1930 circa dove si producevano panettoni,
buondì e altre merendine era stato demolito, e al suo posto svettavano un
enorme supermercato Maxi Simpli con annesso parcheggio multipiano e un Brico
center, Lele Governa fiammeggiava come un drago incattivito. Attirava l’attenzione
e gli sguardi allarmati dei pedoni e degli automobilisti di passaggio su quel
tratto di viale Corsica prossimo all’incrocio con la circonvallazione esterna
più di una vagonata di veline svestite e sculettanti.
La pistola puntata in basso, una Beretta 90two a dodici
colpi calibro .40 S&W, la impugnava a due mani. La canna d’acciaio sabbiato
e brunito puntava un corpo sanguinante disteso supino sul marciapiede. Il corpo
di un uomo che indossava un’arma e una divisa di cui non avrebbe mai più fatto
uso.
La colpa dell’ucciso, addetto alla sicurezza del Maxi
Simpli, era quella di aver palpeggiato e fatto una proposta indecente alla
convivente di Lele, mia sorella Maddalena, cassiera al Brico. Il che spiega il
mio coinvolgimento nella spedizione punitiva. Che a quanto mi aveva promesso
Lele, che ormai da qualche anno non frequentavo più assiduamente come facevo
quando eravamo ragazzi e appena usciti da scuola mangiavamo di corsa e poi ci
fiondavamo in strada – per giocare a basket nei campetti di periferia fino a
che stavamo in piedi e bazzicare tossici e ladruncoli per capire se si poteva
davvero vivere senza lavorare e trovare il grano necessario a ricaricarci e
tenerci su di giri – doveva limitarsi a una ripassata alla guardia giurata, una
strapazzata per rieducarlo pubblicamente alle buone maniere. Una lezioncina
alla milanese, nelle parole di quel bugiardo patentato di Lele Governa, che mi
infinocchia sistematicamente da quando ci siamo conosciuti in seconda media, a
dodici anni, alle selezioni per la squadra di basket della scuola statale Luigi
Majno di via della Commenda, nella palestra dell’edificio 1910 circa. Lui
divenne il centro titolare della prima squadra, io il playmaker di riserva
della seconda. Lui stella, io gregario. Probabilmente Lele è sinceramente
dispiaciuto di non essere mai riuscito a farmi condividere con lui l’esperienza
di giocare da protagonista una finale di campionato provinciale o regionale
degna di questo nome perlomeno quanto lo è del fatto che io la vita da strada
non l’ho mai vissuta fino in fondo e me ne sono tirato fuori prima di rovinarmi
l’esistenza e trasformarmi in un vero e proprio piccolo criminale di periferia.
Quelli da scippi in moto e rapine a farmacie e tabaccherie. Così mi sono perso
l’esperienza dell’arresto in fragrante, della condanna per direttissima e della
detenzione carceraria, da lui più volte reiterata.
Questa volta la tentazione di mandarlo al diavolo
definitivamente è stata forte perché tra due mesi mi sposo e tra cinque
diventerò padre, ma il pensiero che Lele potesse coinvolgere mia sorella
nell’impresa punitiva mi ha fatto capitolare. Così mi sono inventato un
appuntamento dell’ultima ora, ho chiesto alla titolare dell’agenzia immobiliare
per cui lavoro il permesso di prendere la Smart aziendale e alle tre sono
passato a prendere Lele in via Paolo Maspero, nella palazzina a cinque piani
1970 circa con vista Ortomercato in cui abita da sempre.
L’ho portato in viale Corsica, depositato davanti
all’obiettivo e fino al momento in cui non ha estratto la Beretta mi sono
illuso che tutto sarebbe filato liscio.
Dopo i due spari ho dato gas e sono schizzato via. Ho
guardato Lele rimpicciolire nello specchietto retrovisore fino a sparire. L’ho
maledetto. Ho pensato non mi freghi più e proprio in quel momento, mentre
pestavo sull’acceleratore e stringevo il volante come avrei fatto col suo
collo, con la coda dell’occhio ho colto alla mia destra, su un vecchio portone
di un edificio malmesso 1950 circa, una sfilza di cartelli di offerte
immobiliari di vendite e affitti in cui mancava giusto la nostra. Ho frenato e
scalato, messo la freccia e imboccato a razzo un passo carrabile rischiando di
cappottare e travolgere due bambine. Sono sceso dalla Smart, l’ho ringraziata
per non avermi tradito, ho pensato che Lele forse era riuscito a darsela e non
si era fatto blindare. Mi sono imposto di non pensare a mia sorella. Mi sono
attaccato al cellulare. Ho chiamato in agenzia per dire che l’appuntamento era
saltato ma forse avevo trovato qualcosa d’interessante. Ho raggiunto il portone,
studiato gli annunci e fischiettando mi sono fiondato sulla pulsantiera dei
citofoni per fare un po’ di vero lavoro di strada. In fondo, non sono che un
agente immobiliare.
Nessun commento:
Posta un commento