Le mani nodose, segnate dal tempo e dal sole, erano strette
intorno al bastone da passeggio. La schiena curva, Peppino stava rattrappito
sulla sedia di metallo. Attendeva di poter entrare in quell’ufficio al primo
piano del Municipio. Era già lì da
due ore buone. Voleva essere il primo, nella speranza di avere un po’ di
privacy. Dopo di lui erano arrivati in molti. Alcuni portavano sulle spalle il
peso di tante primavere. I più solerti, dal medico come dal sindaco, erano
sempre gli anziani, fra gli sbuffi e le imprecazioni trattenute dei più
giovani.
Ad un tratto nella sala d’attesa si fece silenzio. Sulla
porta si era stagliata una figura imponente: la sindachessa. Una donna
energica, verso cui Peppino nutriva un timore reverenziale. Lui, povero
contadino, non poteva certo dare del tu a una donna che aveva tanti anni di
studi alle spalle.
Il maresciallo Orru aveva lasciato la Sardegna poco dopo
aver smesso i pantaloni corti. Ora aveva una moglie e tre figli da mantenere e comandava la caserma del piccolo paese tra le colline. La zona era tranquilla, anche se c’era
sempre chi sbraitava chiedendo più sicurezza. E quindi anche lì erano state
collocate tante telecamere. Proprio un occhio elettronico pochi giorni prima
aveva sorpreso un anziano a violare una proprietà privata. Non un episodio
grave; nella sua isola fatti di quel genere, quand’era ragazzino, erano
all’ordine del giorno. Ma nella ricca Brianza anche un furtarello andava
punito. L’aveva richiesto a gran voce il proprietario della villa che si ergeva
imponente in cima a una collina di rara bellezza, ormai irrimedibilmente
sfregiata. Ul sciur Brambila si era
presentato in caserma con la registrazione del misfatto compiuto ai suoi danni.
<Voglio che quest’uomo paghi, si comincia con un grappolo d’uva e si finisce
col rapinare le banche> aveva sentenziato l’industrialotto. Rimasto solo il
maresciallo guardò il video e riconobbe l’autore di quel gesto.
Prima che la porta si aprisse e la borgomastra si affacciasse
per dire: <Avanti>, Peppino se n’era già andato. Non ce l’aveva fatta a
varcare quella soglia. Era tornato a casa, nella cascina che l’aveva visto
nascere. Di chiedere dei soldi non
se l’era proprio sentita. Anche se con
la pensione minima non riusciva più a tirare avanti, soprattutto da
quando la sua Irma si era ammalata e aveva un continuo bisogno di cure e di
assistenza. L’infermiera non poteva certo lavorare gratis e lo stesso valeva
per la badante a ore. Ci fosse stata ancora sua figlia avrebbe potuto chiedere
una mano a lei, ma un tumore se l’era portata via. Lui era convinto che quel
brutto male le fosse venuto a causa dei fumi respirati nella fabbrica alla
periferia del paese dove lavoravano l’amianto, ma non era mai riuscito a
dimostrarlo. Qualcuno aveva denunciato la società proprietaria dello
stabilimento, ma non aveva ottenuto nulla. Seduto a tavola, la testa fra le mani, Peppino non sapeva
più che fare. Dalla camera accanto, il preoccupante rantolo della moglie.
Il maresciallo Orru si era affezionato a Peppino, gli
ricordava i pastori del suo paese. Da qualche giorno però non lo incrociava
più. Dopo che l’aveva invitato a recarsi in Comune per chiedere un aiuto
economico non l’aveva più visto. Era disposto a chiudere un occhio su quel furtarello
– al sciur Brambila aveva detto che
le riprese erano scure, che era impossibile riconoscere il ladro – ma non
avrebbe potuto soprassedere se il fatto si fosse ripetuto. L’uomo in divisa
bussò quindi all’uscio della vecchia cascina coi muri scrostati, ma nessuno
rispose. Provò quindi ad abbassare la maniglia. La porta era aperta.
<Peppino>, chiamò il maresciallo. Silenzio. Il tutore dell’ordine stava
per andarsene quando ebbe un presentimento e varcò l’ingresso della camera. Il
vecchio era sdraiato accanto alla moglie. Magrissima, il volto cereo, Irma non
soffriva più. Due lacrime rigarono il volto del maresciallo. Il magistrato
avrebbe disposto un’inutile autopsia. Lui sapeva chi aveva ucciso il vecchio
contadino.
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